domenica 22 novembre 2015

L'avaro

(tratto da Brevi Storie Velleitarie, ed. Sacco -2013-)



Bruttezze. Orde di bruttezze egli era, roccia schifata e vago senso estetico. Di tali detestò anche il perdono poiché, si pensò nell’ambiente, ne fu conscio e vigile nel curarli. Con gli anni divenne giovanotto, uomo ed anziano, deturpante e deturpato.

Lui stesso, nel ’92, si definì catino ignobile da gettare mentre mostrava il borsello gonfio di denaro. Abbandonò il suo cane sotto le scale di casa, nella parte vecchia della cittadina. Gli gridò di non entrare più, di dimenticare quell’uscio perché la sera prima vide nei suoi occhi Buddha, Maometto, Jahvè, il cristianesimo, lo scettico, il comunista, Gandhi e l’immanentismo, tutto insieme. Una vallata di stili di vita.

Abiurò i modelli paritetici e si profuse nel capitalismo più crudo e pragmatico, l’avarizia. Accumulò una fortuna traendo monete da ogni possibile azione, limitando al massimo le operazioni inverse. Forse per questo minacciò il cane e molte persone con un bastone di ciliegio.

Eppure, nel 1997, il secchio di manchevolezze atroci iniziò a spendere quei dannati soldi. Dapprima in un comprensibile stato nervoso e con maniacale occultismo, in modo più naturale dopo, portava a casa ogni lunedì strani pacchi senza diciture.

La curiosità dei vicini si esprimeva in mille bisbigli tra finestre contigue, ai portoni con la scusa dello zucchero, nel bar del rione. Le ipotesi coprivano un ventaglio enorme di possibilità, dagli oggetti saffici a quelli di culto. Da un’immonda perversione ad un quanto mai probabile perdono divino.

E venne il giorno dello sbigottimento.  Sul portone  marroncino di casa, con due scalini esterni ed un breve invito, inchiodò letteralmente per i quattro angoli una targa di plastica rossa. Le scritte bianche dicevano “ Or ecco, vi porgo la mia contemplazione circa l’infinito, universo e mondi innumerabili. G. Bruno”.

L’uomo così viscido da impietosire  una medusa parve ancor più strambo agli occhi paesani. Dunque pessimo, cattivo e psicolabile.

-Che la pazzia lo porti presto via- si soleva rispondere quando l’interlocutore lo nominava. Due settimane dopo (mi pare di ricordare), attaccò un secondo cartello che recitava “ Un infinito in atto non può essere pensato. L.L.Radice”, e fu il caos.

La cosa per alcuni era alcol sul fuoco, ad altri stimolò un certo effetto tra indovinelli, scommesse, possibili percorsi filosofici circa l’eventuale terza targa.

Il miscuglio di manchevolezze , pusillanimità ed ostentazione (poiché dalla prossima mossa pendeva metà paese) andava dritto per la sua strada! Un lunedì il furgone nero dei trasporti veloci chiese nervoso a chi incontrò nelle strette viuzze quale fosse la casa del vigliacco. Allo scarico della grande cassa in legno assistettero una decina di casalinghe. Alcune con le mani avvolte nel grembiule e le maniche tirate al gomito, ma tutte in silenzio attorno alla pedana idraulica. Lui sbraitò un paio di volte contro il camionista per i modi precipitosi con cui maneggiava la cassa; nel contempo, guardava accigliato e torvo l’assemblamento  formatosi attorno.

Ricordo molto bene la ‘riunione’ aperta a tutti, convocata nella piazza adiacente il bar rionale in una sera dell’estate 1999.

La situazione necessitava di un punto: l’andirivieni dei pacchi era continuato al solito ritmo, e questo snervava chi si prestava a  carpirne il contenuto; la terza targa, se mai avesse dovuto attaccarla, era in grave ritardo rispetto alle altre.

Perciò, un po’ per l’attesa, un po’ per il nervosismo, il rione ed il paese tutto soffrì di una sorta d’ansia. Essendo responsabile della salute pubblica, prese subito la parola il sindaco che dettò regole e fini della riunione. Anch’io feci parte del gruppetto col compito di scrivere i concetti essenziali esposti durante l’incontro, per poi farne un razionale sunto. Scartammo quindi le mere lamentele (la maggior parte degli esposti, perché i più si sentivano invasi nel privato dal comportamento dell’immondo; in famiglia si litigava spesso per le diverse opinioni), e stilammo varie tesi.

Una, ad esempio, affermava che il vecchio, non soddisfatto delle proprie empietà, ci giocava un tiro mancino; le casse erano vuote e le targhe uno scherno a chi amava i fatti altrui. Una seconda faceva capo alla corrente politica dell’assessore alla cultura, per cui il vecchio, rapito dal fascino dell’infinito, cercava le parole che fugassero gli inevitabili dubbi che un tale concetto crea. Non è facile trovarle e nelle casse c’erano libri, per cui la terza targa sarebbe comparsa alla lettura di una giusta definizione.

Basso e tarchiato, il polso pieno di forza latina, la barba dura da non potersi radere ogni mattina. Così l’addetto comunale alla cura del verde si alzò dalla sedia. Con un ultimo veloce raddrizzamento dei ginocchi fece volare questa per un paio di metri nella piazza, creando silenzio.

-Finalmente- mormorarono molti.

Mi parve chiaro che quell’uomo, visto raramente passeggiare nel paese, fosse un caposaldo della piccola società. Lo sguardo intenso si posò sugli astanti, prima a sinistra, poi a destra.

-Ecco il botto finale- mormorarono altri. Mi parve chiaro, allora, che quell’uomo taciturno e solitario fosse una di quelle persone caratteristiche di ogni paese. Le sopracciglia ebeti, la bocca semiaperta e la lingua appoggiata al labbro inferiore.

Chiunque fosse stato, espresse soltanto cose già dette.

Nel 2000 un incendio bruciò le casse, le targhe, il vecchio ed il suo portone. Quasi la casa crollò, tant’è vero che i vicini dovettero attendere sopralluoghi e consolidamenti prima di tornare alle loro abitazioni.

Le fiamme, indomate più per la ristrettezza delle vie che per la lontananza dei soccorsi, non lasciarono molto su cui ragionare. L’intera comunità si sentì orfana di risposte, mentre il perito accluse sul referto la stampata ‘accidentale’. Tra tutte le fini degli uomini cattivi, quella data dalle fiamme è la più classica. Mi ripetei, tirando un calcio al ciottolo, che è anche infinitamente dolorosa.


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