(tratto da Brevi Storie Velleitarie, ed. Sacco -2013-)
Bruttezze.
Orde di bruttezze egli era, roccia schifata e vago senso estetico. Di tali
detestò anche il perdono poiché, si pensò nell’ambiente, ne fu conscio e vigile
nel curarli. Con gli anni divenne giovanotto, uomo ed anziano, deturpante e
deturpato.
Lui stesso, nel ’92, si definì catino
ignobile da gettare mentre mostrava il borsello gonfio di denaro. Abbandonò il
suo cane sotto le scale di casa, nella parte vecchia della cittadina. Gli gridò
di non entrare più, di dimenticare quell’uscio perché la sera prima vide nei
suoi occhi Buddha, Maometto, Jahvè, il cristianesimo, lo scettico, il
comunista, Gandhi e l’immanentismo, tutto insieme. Una vallata di stili di
vita.
Abiurò i modelli paritetici e si profuse
nel capitalismo più crudo e pragmatico, l’avarizia. Accumulò una fortuna
traendo monete da ogni possibile azione, limitando al massimo le operazioni
inverse. Forse per questo minacciò il cane e molte persone con un bastone di
ciliegio.
Eppure, nel 1997, il secchio di
manchevolezze atroci iniziò a spendere quei dannati soldi. Dapprima in un
comprensibile stato nervoso e con maniacale occultismo, in modo più naturale
dopo, portava a casa ogni lunedì strani pacchi senza diciture.
La curiosità dei vicini si esprimeva in
mille bisbigli tra finestre contigue, ai portoni con la scusa dello zucchero,
nel bar del rione. Le ipotesi coprivano un ventaglio enorme di possibilità,
dagli oggetti saffici a quelli di culto. Da un’immonda perversione ad un quanto
mai probabile perdono divino.
E venne il giorno dello sbigottimento. Sul portone
marroncino di casa, con due scalini esterni ed un breve
invito, inchiodò letteralmente per i quattro angoli una targa di plastica rossa.
Le scritte bianche dicevano “ Or ecco, vi porgo la mia contemplazione circa
l’infinito, universo e mondi innumerabili. G. Bruno”.
L’uomo così viscido da impietosire una medusa parve ancor più strambo agli occhi
paesani. Dunque pessimo, cattivo e psicolabile.
-Che la pazzia lo porti presto via- si
soleva rispondere quando l’interlocutore lo nominava. Due settimane dopo (mi
pare di ricordare), attaccò un secondo cartello che recitava “ Un infinito
in atto non può essere pensato. L.L.Radice”, e fu il caos.
La cosa per alcuni era alcol sul fuoco,
ad altri stimolò un certo effetto tra indovinelli, scommesse, possibili
percorsi filosofici circa l’eventuale terza targa.
Il miscuglio di manchevolezze ,
pusillanimità ed ostentazione (poiché dalla prossima mossa pendeva metà paese)
andava dritto per la sua strada! Un lunedì il furgone nero dei trasporti veloci
chiese nervoso a chi incontrò nelle strette viuzze quale fosse la casa del
vigliacco. Allo scarico della grande cassa in legno assistettero una decina di
casalinghe. Alcune con le mani avvolte nel grembiule e le maniche tirate al
gomito, ma tutte in silenzio attorno alla pedana idraulica. Lui sbraitò un paio
di volte contro il camionista per i modi precipitosi con cui maneggiava la
cassa; nel contempo, guardava accigliato e torvo l’assemblamento formatosi attorno.
Ricordo molto bene la ‘riunione’ aperta a
tutti, convocata nella piazza adiacente il bar rionale in una sera dell’estate
1999.
La situazione necessitava di un punto:
l’andirivieni dei pacchi era continuato al solito ritmo, e questo snervava chi
si prestava a carpirne il contenuto; la
terza targa, se mai avesse dovuto attaccarla, era in grave ritardo rispetto
alle altre.
Perciò, un po’ per l’attesa, un po’ per il
nervosismo, il rione ed il paese tutto soffrì di una sorta d’ansia. Essendo
responsabile della salute pubblica, prese subito la parola il sindaco che dettò
regole e fini della riunione. Anch’io feci parte del gruppetto col compito di
scrivere i concetti essenziali esposti durante l’incontro, per poi farne un
razionale sunto. Scartammo quindi le mere lamentele (la maggior parte degli
esposti, perché i più si sentivano invasi nel privato dal comportamento
dell’immondo; in famiglia si litigava spesso per le diverse opinioni), e
stilammo varie tesi.
Una, ad esempio, affermava che il
vecchio, non soddisfatto delle proprie empietà, ci giocava un tiro mancino; le
casse erano vuote e le targhe uno scherno a chi amava i fatti altrui. Una
seconda faceva capo alla corrente politica dell’assessore alla cultura, per cui
il vecchio, rapito dal fascino dell’infinito, cercava le parole che fugassero
gli inevitabili dubbi che un tale concetto crea. Non è facile trovarle e nelle
casse c’erano libri, per cui la terza targa sarebbe comparsa alla lettura di
una giusta definizione.
Basso e tarchiato, il polso pieno di
forza latina, la barba dura da non potersi radere ogni mattina. Così l’addetto
comunale alla cura del verde si alzò dalla sedia. Con un ultimo veloce
raddrizzamento dei ginocchi fece volare questa per un paio di metri nella
piazza, creando silenzio.
-Finalmente- mormorarono molti.
Mi parve chiaro che quell’uomo, visto
raramente passeggiare nel paese, fosse un caposaldo della piccola società. Lo
sguardo intenso si posò sugli astanti, prima a sinistra, poi a destra.
-Ecco il botto finale- mormorarono altri.
Mi parve chiaro, allora, che quell’uomo taciturno e solitario fosse una di quelle
persone caratteristiche di ogni paese. Le sopracciglia ebeti, la bocca
semiaperta e la lingua appoggiata al labbro inferiore.
Chiunque fosse stato, espresse soltanto
cose già dette.
Nel 2000 un incendio bruciò le casse, le
targhe, il vecchio ed il suo portone. Quasi la casa crollò, tant’è vero che i
vicini dovettero attendere sopralluoghi e consolidamenti prima di tornare alle
loro abitazioni.
Le fiamme, indomate più
per la ristrettezza delle vie che per la lontananza dei soccorsi, non
lasciarono molto su cui ragionare. L’intera comunità si sentì orfana di
risposte, mentre il perito accluse sul referto la stampata ‘accidentale’. Tra
tutte le fini degli uomini cattivi, quella data dalle fiamme è la più classica.
Mi ripetei, tirando un calcio al ciottolo, che è anche infinitamente dolorosa.