Per
diversi motivi, che raccontare lo avrebbero gettato nella stessa impasse
iniziale che si era imposto superare, a trentadue anni Walter Setti decise di
scrivere un lungo racconto che esprimesse un chiaro ed esplicito intento
politico. Con tale obiettivo, iniziò a valutare diverse situazioni capitategli
in quegli ultimi giorni di un agosto troppo piovoso: una giovane donna percorreva
un breve tratto del corso storico di una cittadina subalpina vivendo varie
micro situazioni, un ultranovantenne piuttosto discolo ne sa e ne racconta, una
riflessione sullo storico cartello appeso al Duomo ‘Milano si inchina alle
vittime innocenti e prega pace’. Dopo appena poche righe, però, le storie
sembravano inoltrarsi verso proprie identità e lo scopo prefissato le torceva
irrimediabilmente in artifici sciatti di cui
lo infastidiva anche la rilettura. Un paio di settimane appresso, considerò i
versi essere forse la forma più adatta all’intento; avrebbe potuto superarne la
tipica mancanza di un adeguato ordine cronologico inserendo più immagini e
spazialità, a scapito di eventuali sterili narrazioni. Scarabocchiò per tre
giorni inutili tentativi, fermandosi alle solite terze righe senza alcun valore
civico, tanto meno estetico; l'ultimo giorno, incitandosi e sfoggiando idonea
presunzione, volle aggiungere otto versi ai commenti di una poesia dedicata a
Pasolini che ritenne vuota e formale, edita online da una poetessa capitolina
in piena onda di successo. Tutto tacque, nel post. Per il nervosismo crescente
– non ne trovò altri motivi – aveva preso a sudare in modo abnorme, fatto che
giudicò deplorevole alla presenza di altri e quindi si ostinò nel più completo
isolamento, chiuso dentro il piccolo appartamento al quarto piano del palazzo
nella solita città. Riprese il quotidiano gettato sulla poltrona qualche giorno
prima e ne invidiò le tante parole impilate in colonne chiare e sicure, che
soltanto al guardarle si sentì reo di manifesta incapacità. Vi lesse, nel
titolo dell’articolo di spalla, dei tre scontri bellici del momento: Ucraina,
Palestina e Libia e desiderò, famelico, quell’esposizione così ardita e nello
stesso tempo serena dei fatti, e le capacità di chi, quotidianamente, la
professava.
Ne seguì, finalmente, l’inevitabile sconforto di una sconfitta che lo
gettò nel vuoto a occhi aperti, così profondo e intenso che ebbe l’impressione
durare delle ore, pur sapendo di viverlo per pochi minuti. In quelle ore
oniriche si spogliò e volle galleggiare a lungo nel vuoto, sentirlo come un
inatteso non giudicabile e difficile da carpire, di cui rimase solo la
possibilità di supporlo. Adesso, negli istanti in cui la giovane donna
percorreva una via del centro, ma semidistrutta di Tripoli, la voce
dell’anziano raccontava l’ingloriosa storia dell’impero italiano; non avrebbe
scritto di destra e sinistra, delle nazionali scelleratezze in bilico sul mare,
ma della Libia e dell’Albania, della Somalia e dell’Abissinia. Non più
l’esigenza politica attuale, sentiva viva; la voce che ora udiva era tristezza
storica, era colpa più antica e insita, erano Crispi e Mussolini due di noi,
Baratieri e Graziani, mediocrità e ignominia. Avrebbe sicuramente accennato ad
un ancor più remoto, al Gran Ducato che abolì la pena di morte o ai primi
Comuni al mondo, per potersi infine chiedere qual è, di queste, l’Italia, chi
siamo noi. Corrotti e corruttori, criminali di guerra e vili alla sconfitta
oppure fautori d’immense conquiste civili? Nel vuoto lo sorprese un dejavu che
lo destò: nelle ore di quel minuto Crispi, pronto a qualunque sacrificio per
salvare l’onore dell’esercito e il prestigio della monarchia, e Menelik, col
suo popolo, gli suggerirono inverosimilmente un’Italia ancora artefice di
progresso. Fummo i primi, infatti, a dimostrare che la rivolta al colonialismo
era fattibile, che il conquistatore bianco poteva essere affrontato e vinto,
che era possibile tornare liberi e indipendenti.
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