lunedì 5 ottobre 2015

Tratto dal racconto 'Fratello',    Fiumi (ISBN-13 9788893061865)


Per diversi motivi, che raccontare lo avrebbero gettato nella stessa impasse iniziale che si era imposto superare, a trentadue anni Walter Setti decise di scrivere un lungo racconto che esprimesse un chiaro ed esplicito intento politico. Con tale obiettivo, iniziò a valutare diverse situazioni capitategli in quegli ultimi giorni di un agosto troppo piovoso: una giovane donna percorreva un breve tratto del corso storico di una cittadina subalpina vivendo varie micro situazioni, un ultranovantenne piuttosto discolo ne sa e ne racconta, una riflessione sullo storico cartello appeso al Duomo ‘Milano si inchina alle vittime innocenti e prega pace’. Dopo appena poche righe, però, le storie sembravano inoltrarsi verso proprie identità e lo scopo prefissato le torceva irrimediabilmente in artifici sciatti di cui lo infastidiva anche la rilettura. Un paio di settimane appresso, considerò i versi essere forse la forma più adatta all’intento; avrebbe potuto superarne la tipica mancanza di un adeguato ordine cronologico inserendo più immagini e spazialità, a scapito di eventuali sterili narrazioni. Scarabocchiò per tre giorni inutili tentativi, fermandosi alle solite terze righe senza alcun valore civico, tanto meno estetico; l'ultimo giorno, incitandosi e sfoggiando idonea presunzione, volle aggiungere otto versi ai commenti di una poesia dedicata a Pasolini che ritenne vuota e formale, edita online da una poetessa capitolina in piena onda di successo. Tutto tacque, nel post. Per il nervosismo crescente – non ne trovò altri motivi – aveva preso a sudare in modo abnorme, fatto che giudicò deplorevole alla presenza di altri e quindi si ostinò nel più completo isolamento, chiuso dentro il piccolo appartamento al quarto piano del palazzo nella solita città. Riprese il quotidiano gettato sulla poltrona qualche giorno prima e ne invidiò le tante parole impilate in colonne chiare e sicure, che soltanto al guardarle si sentì reo di manifesta incapacità. Vi lesse, nel titolo dell’articolo di spalla, dei tre scontri bellici del momento: Ucraina, Palestina e Libia e desiderò, famelico, quell’esposizione così ardita e nello stesso tempo serena dei fatti, e le capacità di chi, quotidianamente, la professava.

Ne seguì, finalmente, l’inevitabile sconforto di una sconfitta che lo gettò nel vuoto a occhi aperti, così profondo e intenso che ebbe l’impressione durare delle ore, pur sapendo di viverlo per pochi minuti. In quelle ore oniriche si spogliò e volle galleggiare a lungo nel vuoto, sentirlo come un inatteso non giudicabile e difficile da carpire, di cui rimase solo la possibilità di supporlo. Adesso, negli istanti in cui la giovane donna percorreva una via del centro, ma semidistrutta di Tripoli, la voce dell’anziano raccontava l’ingloriosa storia dell’impero italiano; non avrebbe scritto di destra e sinistra, delle nazionali scelleratezze in bilico sul mare, ma della Libia e dell’Albania, della Somalia e dell’Abissinia. Non più l’esigenza politica attuale, sentiva viva; la voce che ora udiva era tristezza storica, era colpa più antica e insita, erano Crispi e Mussolini due di noi, Baratieri e Graziani, mediocrità e ignominia. Avrebbe sicuramente accennato ad un ancor più remoto, al Gran Ducato che abolì la pena di morte o ai primi Comuni al mondo, per potersi infine chiedere qual è, di queste, l’Italia, chi siamo noi. Corrotti e corruttori, criminali di guerra e vili alla sconfitta oppure fautori d’immense conquiste civili? Nel vuoto lo sorprese un dejavu che lo destò: nelle ore di quel minuto Crispi, pronto a qualunque sacrificio per salvare l’onore dell’esercito e il prestigio della monarchia, e Menelik, col suo popolo, gli suggerirono inverosimilmente un’Italia ancora artefice di progresso. Fummo i primi, infatti, a dimostrare che la rivolta al colonialismo era fattibile, che il conquistatore bianco poteva essere affrontato e vinto, che era possibile tornare liberi e indipendenti. 
....

Nessun commento:

Posta un commento